Siediti composto

(foto di Osamu Yokonami)

(foto di Osamu Yokonami)

Non dovrei affatto star qui a scrivere. Dovrei lavorare alla tesi, stirare, lavare i piatti del pranzo, finire le programmazioni e rifare il letto, magari, così, last minute. Il fatto è che oggi è stata una giornata troppo strana per non raccontarla, una di quelle in cui capita di vedere e ascoltare come dentro ad una visione. Si, una di quelle giornate nelle quali pare di stare al mondo con i cinque sensi spinti al massimo.

Esco di casa e ricordo di aver lasciato sopra il letto la corazza che difende, da tutto, i tappi per le orecchie, il velo sugli occhi.

Corro in macchina, sono in ritardo, accendo la radio, De Gregori è lì e Nino sta ancora imparando a non aver paura di un calcio di rigore. I semafori al mattino sono una metafora perfetta della vita: li vedi verdi, da lontano, accelleri. Ma quando arrivi lì davanti ed è il tuo turno, scatta il rosso, ti fermi. Ad un semaforo pedonale, di quelli che appena il pedone li accarezza con lo sguardo e pensa soltanto di voler premere il pulsante, ti fa piantare i freni sull’asfalto, alzo lo sguardo: da una parte una suora e una mamma con un passeggino, dall’altra una persona anziana e due adolescenti con gli zaini eastpak lenti sulla schiena. Li vedo attraversare ed incrociarsi e mi pare di assistere ad un raffinatissimo gioco di prestigio: la suora al posto degli adoloscenti, l’anziana signora al posto della mamma, scambio di sponda, una di qua, gli altri di là, la suora era giovane, la mamma sarà vecchia, il bambino sul passeggino andrà a scuola, gli adolescenti avranno un bambino. Tutto è veloce, la vita è veloce. Suonano, è verde, riparto.

Arrivo a scuola, posteggio. Ho davanti a me sei lunghissime ore. Io ho sonno, loro hanno sonno. Io non posso dirlo, loro si. Spiego, urlo. Li guardo. Fino alla terza ora rimango salda, tutta d’un pezzo.

Sono adolescenti come lo sono stata anch’io. Oggi, però, siamo su due sponde diverse, , stiamo su due marciapiedi opposti. Mi guardo attorno: nessun semaforo per attuare uno scambio. Interrogo chi era impreparato la scorsa settimana: “Ah prof., ma che sempre a me?”: Mi fermo. Cerco di capire perchè gli sembra assurdo quello che a me appare normale: “Scusa, ma non ti ho detto che dovevi recuperare?”. Silenzio. Poi uno scatto di orgoglio, ci prova: “Lo shabbat ricorda…” – silenzio…silenzio – “ricorda il riposo di Dio dopo la creazione” – silenzio. “Si, giusto, e poi? Cosa fa e cosa non fa un ebreo durante lo shabbat, lo abbiamo spiegato, ricordi? Abbiamo fatto lo schema alla lavagna, ricordi?” – silenzio…silenzio…silenzio. Mi arrendo, interrogo qualcun altro. Un paio di minuti e la vittima dello shabbat mi chiede: “Ah prof, ma quanto ho preso?” – “Eh?” – rispondo io – “Si, perchè?  Non ho risposto?” – dice lui – silenzio…silenzio…silenzio, ed è il mio questa volta.

Suona la campanella. E’ ricreazione. La ricreazione è il fronte. Venti contro uno. Li vedo alzarsi e sfoderare le armi: merendine, pizze rosse, pizze bianche. Vengono verso di me, tutti, compatti, un corpo solo, e ad una sola voce esclamano: “Ah prof., posso anda’ in bagno? E’ urgente!”. Organizzo i turni. Devo guardare tutto, stare attenta a tutto, non devono cadere, non devono farsi male, non si devono strozzare, non devono infilzarsi con le forbici, non devono usare i cellulari, non devono infilarsi i tappi delle penne dentro al naso. Niente pugni, niente calci.

Risuona la campana. Mi aspetta una classe “difficile”. Terza media, ma qualcuno di loro ha la barba. Dovrebbero stare al liceo. E invece sono lì, alla scuola dell’obbligo. “Che espressione triste” – penso. Si sentono obbligati, infatti, si sentono scoppiare. Comincia il mio rosario: “siediti, calmati, fermati, apri il libro, apri il quaderno, siediti composto”. Siediti composto…ho lasciato la mia armatura sul letto e i cinque sensi sono tutti spinti al massimo. Sie-di-ti com-pos-to… La frase mi muore sulle labbra mentre penso a come pranzo e ceno, io. Sul divano, con le gambe incrociate o a terra, con le spalle poggiate al divano. Li guardo. Ripenso alla mia stanza alla loro età. I libri per terra, i vestiti sulla scrivania, le scarpe nell’armadio. La necessità di dare un posto tutto mio alle cose, di cambiare l’ordine dei fattori convinta com’ero che il prodotto sarebbe cambiato. “Siediti composto…”.

Sono in pochi nella mia classe difficile. Circondano la cattedra. Parliamo. Tra un calcio, un cazzotto, un insulto, il più gettonato di sempre: “Tua madre!”. Li convinco: le madri e le sorelle restano fuori dal ring. Prendono in giro il ragazzo rumeno. Sono spietati. Chirurghi dello sfottimento. Con occhio clinico individuano il punto debole e lì affondono la lama, tagliente, amputano ogni forma di dialogo, la possibilità di conoscersi davvero. Infieriscono sulla debolezza altrui per non sentir ringhiare la propria. Li rimetto seduti. Li guardo. Li guardo e penso che non devo dimenticare mai più la mia corazza sul letto. Provo a far parlare loro. Parlano. Parliamo di rabbia. Chiedo cosa li fa arrabbiare, come fanno a smaltirla, loro, la rabbia. “Quanno è morto mi nonno, ho dato un pugno ar finestrino de na macchina. S’è rotto, me so rotto anch’io. Me uscito tutto er sangue, ma non me so fatto male prof., non sentivo dolore, solo la rabbia”. Silenzio…silenzio. “Ah prof., quanno è morta mi madre io nun ce so andato ai funerali. So andato a scola. Sette anni c’avevo ma me la ricordo pure ora, era dentro a bara, era tutta bianca prof., me so arrabbiato io, so andato a scola”. Silenzio.

Quando sono arrabbiati, devono “mena’ quarcuno” – mi dicono. “Se uno me insulta io gli meno a prof., e che devo fa?”. Le mie orecchie ascoltano, i miei occhi vedono. “Ah prof., ma a casa s’arrabiano con noi, mo’ basta che sbatti na porta e stanno tutti a strilla’! L’altra vorta mi padre mi ha detto: aò, sarvanno to madre sei proprio un figlio de na mignotta”. La realtà allarga le sue maglie, io socchiudo gli occhi, guardo attraverso, li vedo. “Ah prof., ma uno se deve sfoga’. Mi padre ad esempio, quanno va o stadio, se porta e bandiere, e poi però ce leva a bandiera e se mette sotto braccio er bastone! Ah prof., a o stadio ce  stanno e guardie, mica pe niente, è per precauzione”.

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